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AGENDA per il PARTITO 5.0

Questa è la mia agenda personale, dove raccolgo alcune idee su questioni che mi sembrano importanti per lo sviluppo del pensiero politico del PARTITO 5.0. Si tratta di semplici appunti di lavoro che voglio condividere con te affinché tu possa conoscere cosa penso e, ben più importante, contribuire con le tue idee a individuare il percorso giusto per la ricostruzione della sinistra in Italia.

UNA SOCIETA' INCLUSIVA

Di Antonio Guizzetti | 24 Dicembre 2022

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Comincerei queste mie schede tematiche parlando di inclusione. Questo termine si muove in uno spazio di questioni molto importanti, che riguardano il cuore stesso della società che ci piacerebbe in qualche modo immaginare per il futuro di tutti noi.

 

Una società inclusiva è quella in cui ogni persona, ciascuna con i suoi diritti e i suoi doveri, ha un ruolo attivo da svolgere. Naturalmente, una società inclusiva è basata su alcuni fondamentali valori costitutivi: equità, eguaglianza, giustizia sociale, dignità umana, diritti e libertà. Essa è anche una società che dispone di appropriati strumenti e meccanismi che consentono ai cittadini di partecipare nei processi decisionali che impattano sulla loro vita e, in definitiva, determinano il loro comune futuro.

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Le prime basi politiche della società inclusiva si possono forse associare al Summit Mondiale di Copenaghen per lo Sviluppo Sociale del 1995. Fu in quell’occasione che si raggiunse un largo consenso sul fatto che era necessario mettere le persone al centro dello sviluppo. In effetti, una società inclusiva si definisce oggi una società People Centred, cioè costruita attorno alla persona. 

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L’approccio politico a una società inclusiva deve essere multidimensionale, sia in termini di processi (come), sia in termini di contenuti (cosa). La sua realizzazione non può che avvenire attraverso successive tappe incrementali: l’adesione e il riconoscimento; l’assunzione come obiettivo politico; il godimento dei diritti di agire e di rivendicare, di accedere ai servizi sociali (alloggio, istruzione, sanità, trasporti, eccetera); lo stanziamento di adeguate risorse sociali e finanziarie. Nessun partito serio può proporre la società inclusiva come traguardo a breve della sua azione. Può impegnarsi in questo senso, usandolo - perché no? - come algoritmo di valutazione dei suoi programmi, prima, e delle sue azioni, poi.

 

Non esistono molti dati che consentano di valutare come stiamo in fatto di società inclusiva. Una buona approssimazione è forse il tasso di deprivazione materiale e sociale, che misura la quota di popolazione che non può avere accesso a un paniere di beni e servizi considerati necessari a un adeguato tenore di vita. È calcolato a due livelli relativi di deprivazione: uno che implica maggiori sacrifici, uno minori. Per farci un’idea di cosa stiamo parlando, prendiamo il dato severo, che implica maggiori privazioni per la persona. La percentuale di popolazione in questa condizione è del 6,3% nella media europea, del 5,9% in Francia e Italia, del 4,2% in Germania. Agli appassionati della tassa piatta che guardano con simpatia, se non con ammirazione, agli amici dell’Europa Orientale comunico che laddove la Flat Tax è ancora in vigore le percentuali di popolazione deprivata salgono al 23,1% in Romania, al19,1% in Bulgaria, al 18,2% in Ungheria. Certamente, le percentuali di Germania, Francia, Italia e molti altri paesi europei avanzati possono sembrare irrilevanti., ma, attenzione, esse significano, per esempio nel nostro caso, che circa tre milioni e mezzo di italiani vivono (sarebbe meglio dire sopravvivono) in condizioni di estremo disagio, come esclusi dal resto della società. Non esiste una ricetta segreta per ovviare a tutto questo. Né esiste una società inclusiva che non richieda sacrifici a nessuno. Per crearla, occorre tener conto del massimo bene comune e chiedere di più a qualcuno per dare di più a qualcun altro. 

 

La politica, comunque lo si voglia vedere, è rappresentanza d’interessi. Si tratta di scegliere quali rappresentare. Il nuovo partito che immaginiamo dovrebbe rappresentare soprattutto gli interessi degli ultimi. Non solo perché è bello, ma anche perché è utile a una maggiore crescita del Paese.

LA QUESTIONE MORALE

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Di Antonio Guizzetti |  27 Dicembre 2022

Credo necessario dedicare questa mia seconda nota tematica spendere una qualche sulla così detta questione morale, anche sulla scia di recenti avvenimenti che hanno, in un modo o nell’altro, interessato il PD. Il QATARGATE è uno scandalo che tocca le coscienze di tutti in uguale misura, destra e sinistra.

 

Cercherò di farlo evitando la sguaiatezza di certe letture dei fatti e il dilettantismo etico di troppi, ma anche senza troppi svolazzi intellettuali. In line di principio, il tema dell’etica politica (spesso indicata anche con altre dizioni, come morale politica o etica pubblica) consiste nell’esprimere un giudizio morale sulle azioni politiche, che è cosa sostanzialmente diversa dall’esprimere un giudizio morale sulle azioni personali. Inoltre, ci sono almeno due differenti aspetti dell’etica politica. Il primo aspetto è quello dell’etica politica nei processi, che riguarda l’etica, diciamo così, dei pubblici servitor, i politici nell’esercizio della loro funzione rappresentativa e i burocrati nell’esercizio della loro funzione amministrativa. Il secondo aspetto è quello dell’etica politica nelle azioni, dei partiti e dei parlamenti, ad esempio, cioè in quella che abbiamo prima chiamato la Policy (che grosso modo significa cosa fare e per quali obiettivi, vale a dire la soluzione politica dei problemi).

 

Anche se etica dei processi ed etica delle azioni discendono entrambe dai concetti di base della filosofia morale e della filosofia politica, sono argomenti molto diversi, che meritano analisi, valutazioni e giudizi differenti.

 

In effetti, tutti noi, e i mezzi di comunicazione in particolare, ci occupiamo comunemente dell’etica politica dei processi, che implica sostanzialmente un giudizio morale sulle persone, mischiandola con l’etica politica delle azioni, che implica sostanzialmente un giudizio morale sui partiti. Non credo si tratti di un errore metodologico involontario, ma piuttosto del desiderio di trasformare tutto in rissa politica. La domanda che in realtà ci poniamo è questa: diffusi e ricorrenti episodi di mala etica personale di uomini di partito e di burocrati di area, chiamano in causa i partiti politici? In che misura? Io rispondo sì e in misura importante. Essi rappresentano la prova provata di meccanismi di selezione della classe dirigente quantomeno inadeguati, per non pensare di peggio, e di meccanismi di cordata interni ai partiti in base ai quali si chiude un occhio, e anche due, su evidenze comportamentali spesso molto visibili, in cambio di prove di appartenenza, che Ä— solo un altro modo di chiamare il voto di scambio. Su questi argomenti, mi sembra di aver visto troppe latitanze nelle prese di posizione del PD, troppo garantismo peloso, troppi equilibrismi metaforici (le “Mele Marce”, gli “Scagli la Prima Pietra”, la “Responsabilità Personale” e via così dicendo).

 

Dovremmo guardarci bene nello specchio e avere la forza di vederci come siamo, anche se non è facile, e poi lavorare seriamente per essere migliori domani, senza tuttavia illudersi di poter mettere mani sul fuoco per chiunque dei nostri compagni.

 

L’etica s’impara? Forse, ma se ce l’hai di tuo è decisamente meglio e ancora meglio è adottarla come principio - non negoziabile - di fare politica

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AMBIENTE E SVILUPPO

Di Antonio Guizzetti |  18 Gennaio 2023

Nel 1930, John Maynard Keynes, economista che spesso sciacqua la bocca ad una sinistra salottiera e ai neofiti dell’economia sociale, in un suo saggio intitolato “Economic Possibilities for our Grandchildren”, scriveva che nel 2030 (cent’anni dopo) intensi investimenti di capitali e importanti progressi tecnologici avrebbero aumentato di almeno otto volte gli standard di vita, creando una società così ricca da consentire che le persone lavorassero quindici ore la settimana e dedicassero il resto del loro tempo ad altri interessi e attività. Keynes arrivò addirittura a profetizzare che il grande amore dell’uomo per il denaro sarebbe stato finalmente riconosciuto per quello che è realmente: una morbosità un po’ disgustosa.

 

In quanto a previsioni di sviluppo della ricchezza prodotta, Keynes ha sbagliato certamente per difetto. Soltanto dal 1980 (ben cinquant’anni dopo la pubblicazione del suo saggio di Keynes) a oggi, stando al database della Banca Mondiale, il PIL mondiale a prezzi correnti, parità di potere d’acquisto, del 2022 è dodici volte quello del 1980: otto volte per le economie avanzate, 19 volte per le economie in sviluppo. Nello stesso periodo di tempo, il livello di reddito pro capite, espresso in questo caso a prezzi costanti e parità di potere d’acquisto (2017) è raddoppiato nelle economie avanzate ed è triplicato nelle economie in sviluppo., 

 

Ciò malgrado, si deve osservare che questa consistente crescita della ricchezza prodotta non ha creato una società come quella che si attendeva Keynes. Questo, ha provocato, specialmente a sinistra, un intenso dibattito sulla fattibilità e desiderabilità di un modello di crescita basato fondamentalmente, a dire di molti, sulla spinta a consumare sempre più cose, anno dopo anno. Questo dibattito, si è poi ulteriormente rinvigorito alla luce del pensiero ambientalista estremo, sino a arrivare a generare la teoria della decrescita, che sostanzialmente richiede che le economie avanzate abbraccino il principio della crescita zero, anzi preferibilmente della crescita negativa, del PIL.

 

In Italia, questa condizione, - absit iniuria verbis – l’abbiamo raggiunta da almeno un ventennio e non è che questo ci abbia reso particolarmente felici.

 

Dunque, a sinistra, piuttosto che trastullarci con un ambientalismo modaiolo e astratto, dovremmo cominciare a lavorare con i nostri migliori cervelli delle questioni sostanziali e di fondamentale importanza per il nostro futuro. Possiamo prosperare senza la crescita economica? La risposta evidente è no. E allora quale deve essere il modello di sviluppo della sinistra democratica, progressista e riformista? 

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IL PD E LE ALLEANZE

Di Antonio Guizzetti |  19 Gennaio 2023

Nel PD precongressuale mi sembra molto forte il desiderio d’una futura alleanza con il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. Ho l’impressione che molti esponenti di spicco del partito, e molti di quelli che il partito l’hanno lasciato alla ricerca dei loro decimali di consenso, senza per questo demordere dalla pretesa di insegnare ancora come essere di sinistra, credono che la ricollocazione più a sinistra del partito passi per l’alleanza con quel Movimento 5 Stelle che probabilmente essi collocano oggi più a sinistra di loro stessi e quindi in grado di aumentare il tasso si “sinistrismo” del nuovo partito post – congressuale.

 

Io sono convinto che si possa giudicare in molti modi il Movimento 5 Stelle, ma che il modo più sbagliato sia quello di vederlo come una costola della sinistra italiana. Il movimento a guida Conte non è di sinistra e non possiede nessuna delle caratteristiche costitutive di un partito della sinistra moderna europea. Il Movimento 5 Stelle rappresenta, piuttosto, la svolta a sinistra di un populismo sostanzialmente di destra: un partito qualunquista e antisistema nelle sue viscere, ben oltre la spolverata governista del perbenismo di una sola stagione. Però quello che mi sorprende di più, in tutto questo, è il sotteso senso d’impotenza dell’attuale PD. Come riconoscere da subito che senza stampelle esterne le prospettive sono davvero nere. Magari è così, ma a me hanno insegnato che la prima condizione del successo è crederci e che il primo valore di un’offerta politica è la capacità di distinguersi dagli altri. 

 

Allora, mi chiedo: ma quant’è intelligente questo mettere il carro dell’alleanza davanti ai buoi dei tuoi valori e delle tue scelte di programma? In che condizioni andremo eventualmente a una trattativa di alleanza avendo dichiarato sin d’ora che una sola di esse è possibile?

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E infine: ma se siamo così eguali ai 5 Stelle, perché mai, a sinistra, dovrebbero votare noi?

PRESIDENZIALISMO ALL'ITALIANA

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Di Antonio Guizzetti |  18 Gennaio 2023

Dunque, il nostro Presidente del Consiglio ha ribadito in modo molto forte e determinato l’intenzione propria e del suo partito di realizzare una riforma costituzionale di stampo presidenzialista. In altre parole: cambiare radicalmente il meccanismo di governo istituzionale e politico di questo Paese.

 

Giorgia Meloni ha sicuramente le idee chiare in proposito e ho pochi dubbi che non le voglia e sappia portare avanti con decisione, malgrado qualche tentennamento in più dei suoi alleati. Non so se riuscirà a farlo con un consenso tale del Parlamento che le consenta di evitare il successivo passaggio referendario, ma lo ritengo abbastanza probabile, Cosi come sono abbastanza certo che, in caso di referendum, con gli spifferi, insieme, di antipolitica, da una parte (soprattutto a sinistra), e di autoritarismo, dall’altra (soprattutto a destra), avrà alla fine ragione. A meno che, ma non credo, la voglia di regionalismo non spinga qualcuno a riflettere bene sulla combinazione presidenzialismo (comando unico) e regionalismo (comando di tanti): dipenderà dal bottino che ognuno potrà dare in pasto al suo elettorato di riferimento. In Italia, alla fine, il pastrocchio è sempre possibile.

 

Quando penso al presidenzialismo, non posso fare a meno di riflettere sul fatto che, nella buona sostanza della politica concreta, l’unico e vero contrappeso della nostra fragile democrazia bicamerale è rappresentato dalla distribuzione dei poteri (e quindi dei contrappesi) tra il Capo dello Stato e il Primo Ministro. Lo dimostrano molto chiaramente quasi tutte le più drammatiche e pericolose crisi politiche attraversate dall’Italia negli ultimi vent’anni. In esse, l’intervento del Capo dello Stato, anche quando ad alcuni è apparso ai limiti del suo potere costituzionale, ha rimesso la barca in linea di galleggiamento, magari per una navigazione non proprio tranquilla, ma certamente meno pericolosa di un naufragio.

 

Certo, di una ripassatina la nostra Costituzione sembra forse aver bisogno. Penso soprattutto al barocco e pesante bicameralismo perfetto, che nel mondo, oramai, esiste quasi solo da noi. La maggioranza dei paesi europei ha sistemi parlamentari monocamerali. Solo cinque paesi hanno una seconda camera elettiva. Vero è che quando questa riforma, in modo per la verità un po’ abborracciato, si è presentata sulla scena italiana è stata bocciata e che il PD ci ha messo molto del suo in questo, ma credo che il tempo del balletto dei provvedimenti legislativi che viaggiano tra Camera e Senato e viceversa sia davvero tramontato da tempo. Naturalmente, non basterà il monocameralismo ad assicurare una macchina legislativa più moderna. 

 

Altre riforme saranno necessarie (a cominciare, forse, da un potenziamento dei poteri di scelta e di nomina del Primo Ministro). Inclusa anche la riforma del regionalismo, direi con il ritorno più al centro delle materie vitali per le persone (sanità e scuola, per dirne un paio) e con ampia delega su tutte le materie amministrative che possano avvicinare il cittadino alle istituzioni locali e responsabilizzare di più politica e burocrazia del territorio.

STATO PADRONE

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Di Antonio Guizzetti |  27 Gennaio 2023

Il lavoro è senz’ombra di dubbio il più urgente dei tanti urgenti problemi della società italiana. Credo che sia del tutto inutile spiegarne la ragione: è evidente nei livelli di povertà di troppe famiglie, nella disperazione di troppi disoccupati che perdono il lavoro, nell’apatia rassegnata e rabbiosa allo stesso tempo di troppi giovani.

 

Lasciamo all’inconcludente dibattito sui media vecchi e nuovi le analisi sbrigative, le soluzioni miracolistiche, le dispute ideologiche e quant’altro del circo italiano dell’informazione.

 

Il lavoro lo creano le imprese, pochi dubbi su questo, almeno nel nostro sistema economico di stampo liberal – occidentale. Le imprese le creano gli imprenditori, sulla base della loro visione del mercato, delle loro capacità finanziaria, della disponibilità di finanza esterna di supporto.

 

Ci poniamo adesso una domanda molto semplice: lo Stato può e deve essere imprenditore? Io risponderei sì, a certe condizioni, due in particolare: che l’impresa di proprietà dello Stato operi alle stesse identiche condizioni di mercato nelle quali operano le imprese concorrenti private e che la gestione dell’impresa pubblica sia messa al riparo da interferenze politiche e partitiche di qualunque segno, non solo nella nomina dei vertici, ma anche nel governo delle strategie e delle operazioni aziendali. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di due condizioni ideali di difficilissima concretizzazione, ma sono le sole che possono sostenere un’opinione, come la mia, in linea di principio favorevole a un intervento selettivo diretto dello Stato nell’economia produttiva del Paese. Alle condizioni che ho precisato, arrivo persino a dire un’altra cosa: che il profitto non è necessariamente l’obiettivo primo dello Stato Padrone nuovo che immagino io.

 

Ma cosa intendo per intervento selettivo? Mi viene in aiuto, in proposito, l’esempio del Paese forse più liberista al mondo, o che tale spesso consideriamo: gli Stati Uniti.

 

Negli Stati Uniti, varrebbe la pena di approfondirne la conoscenza da parte di molti, esiste una politica industriale molto robusta. L’attuale amministrazione, per esempio, ha pianificato interventi importanti col Bild Back Better e col Supply Chain Reliance Plan. Si fa conto su un ventaglio ampio d’interventi sulle infrastrutture hard e soft, sulle capabilities che devono sostenere il lavoro e l’impiego delle persone e sulla sicurezza dei prodotti critici nella catena del valore. Questa politica industriale è progettata per un contesto di estrema competizione soprattutto, ma non esclusivamente, con la Cina. Essa si pone l’obiettivo, da una parte, di diminuire la dipendenza strategica specialmente per le componenti più critiche della catena del valore, come ad esempio alcuni minerali, i semiconduttori, le batterie ad alta capacità, eccetera e, dall’altra, di espandere la base manifatturiera nazionale più avanzata (in altre parole: a maggior valore aggiunto).

 

Capisco che parlare di politica industriale in Italia, oramai, sembra quasi una bestemmia, inferiore soltanto a quella di parlare d’impresa pubblica. Ma a me non è mai piaciuto buttare via il bambino con l’acqua sporca e credo fermamente che l’Italia abbia bisogno di mettere in maggior sicurezza il suo tessuto industriale, anche, se necessario, con un imprenditore pubblico “moderno”, dove il termine indica tanti aggettivi ulteriori: onesto, trasparente, indipendente, capace, efficiente,  razionale, eccetera. Impossibile? Prendiamola come una sfida.

 

Ultimissima annotazione: nessuno sa esattamente, credo, a che punto sia il famoso PNRR. Una creatura bifronte, affacciata sulla coda del governo Draghi e sui titoli di testa del governo Meloni. Inevitabili, forse, i rimpalli di criticità e l’ossessione della diversità. Temo che finisca in un gran pasticcio all’italiana: era (forse è ancora) un’ottima occasione per muoversi in una ragionata e ragionevole prospettiva di sinergia con qualche buona idea di politica industriale. La perderemo in un inutile mare di polemiche e in un assalto alla diligenza di risorse che sembrano di nessuno e invece ci costeranno care, come tutte quelle che spesso sprechiamo in iniziative senza capo né coda, quasi sempre lasciate poi a metà fra l’indifferenza generale e un’alzata di spalle delle istituzioni.

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