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MANIFESTO

Contributo di Idee ed Opinioni per il Congresso Costituente del Nuovo PD

 

Questo documento – d’accordo a quanto previsto dall’Articolo 2 del percorso per il Congresso Costituente del nuovo PD - rappresenta un mio modesto contributo alla preparazione del prossimo Congresso del PD, dichiaratamente aperto all’apporto di persone esterne al partito, come sono io. Un Congresso come quello che ci accingiamo a vivere tra poco richiede delle dosi massicce di passione, magari anche di partigianeria, poi di progettualità e di competenze ed infine anche di tanto spirito costruttivo. La passione ci serve per potere credere nel cambiamento che invochiamo, la partigianeria per chiarire da che parte stiamo, la progettualità per disegnare il futuro che vogliamo, la competenza per essere in grado di definire gli obiettivi delle nostre azioni e lo spirito costruttivo per non sentirsi sconfitti dai vincitori.

 

Il Congresso avviene dopo una sconfitta elettorale evidente nella sua dimensione, chiara nelle sue cause. Qualcuno amerà forse ritornare su raffinate analisi del risultato elettorale del 25 settembre: esercizio perfettamente inutile. Esistono molte buone analisi delle ragioni della sconfitta del PD, sia di parte sia indipendenti, sia generiche, sia statisticamente solide. Ritornare su questa vicenda, non aggiungerebbe nulla ai lavori congressuali. E la sensazione, peraltro confermata dagli immancabili sondaggi, è che il partito si stia ulteriormente indebolendo presso l’elettorato. Sintetizzerei così le cose: il PD ha fragorosamente perso perché troppi hanno sbagliato troppo e per troppo tempo. Fra quei tanti ci sono quelli che se ne sono andati a raccogliere l’uno per cento dell’elettorato o poco più, quelli che se ne sono semplicemente andati e pontificano adesso su come si crea un vero partito di sinistra, quelli che sono rimasti ma solo per distinguersi e cinguettare di improbabili alleanze per un fantomatico campo largo. Poi ci sono anche quelli che hanno sbagliato parecchio, ma che sono stati affondati, alla fine, dal fuoco amico per un referendum che, col senno di poi, non era forse tutto da buttare. Infine, ci sono anche quelli che, volenti o nolenti, hanno usato il partito come il tram di una sola fermata. Tenere a mente gli errori del passato, più lontano o più vicino, non è però l’invito ad aprire la caccia ai responsabili, come forse piacerebbe a molti. Piuttosto è un modo per dire che questo non può essere un congresso per rifondare l’esistente, bensì un congresso per creare una cosa nuova della sinistra italiana. Non abbiamo nulla da ricostruire sulle nostre macerie; abbiamo tutto da costruire sulla nostra Visione e sulle nostre Idee, ammesso che in noi ce ne sia ancora traccia. Quello che forse dovremmo fare, è riuscire a dar forma a un Partito Nuovo, che potremmo convenzionalmente chiamare PARTITO 5.0, cioè un partito politico in grado di proporre al Paese una visione nella quale  i grandi potenziali  dell’innovazione e della tecnologia, cioè le chiavi di accesso allo sviluppo, siano sfruttati per creare nuovi valori largamente condivisi, per generare più benessere per le persone e le comunità, per distribuire più equamente la ricchezza materiale e immateriale creata dal lavoro, per proteggere l’ambiente con maggiore impegno personale di tutti e maggiori risorse pubbliche di sostegno. Mi sembra, invece, che molti stiano avvolgendosi in una specie di calda coperta tessuta dell’idea che stare all’opposizione non potrà che fare bene al PD. Non so se la buonanima di Giulio Andreotti sarebbe della stessa opinione, ma qualche dubbio è lecito. Magari al PD potrà anche giovare stare all’opposizione, ma temo che questo possa costare piuttosto caro al Paese. D’altra parte, bisogna anche vedere come ci si sta, all’opposizione, ributtando ogni volta la palla nella tribuna dei massimi sistemi ideali o sporcandosi un po’ le mani e strizzandosi un po’ anche il cervello con idee politiche solide iniziative legislative efficaci, obiettivi spendibili con l’elettorato di riferimento. Inoltre, l’opposizione va anche venduta bene al mercato elettorale e non ci sembra che la comunicazione del PD sia il meglio che si vede in giro. Senza dire che il PD, all’opposizione, c’è stato anche piuttosto recentemente, almeno nei 461 giorni del governo Conte I, senza lucrarne, mi sembra, grandi risultati di maggiore penetrazione nell’elettorato. Almeno che non si faccia conto adesso di una durata assai maggiore dell’attuale governo, magari sino ai 1826 giorni della XIX Legislatura, tanto per dire. Vorrei anche segnalare, a questo proposito, che sta emergendo una certa tendenza a semplicisticamente attribuire la recente sconfitta elettorale al troppo senso di responsabilità del PD verso il Paese, che lo ha spinto a sostenere soluzioni di governo deboli e approssimative a fronte di potenziali rischi di una sua implosione. Forse c’è qualcosa di vero in questa tesi, perché, in questi tempi, è davvero più facile fare l’opposizione che governare (anche se è difficile capire la metamorfosi tra la Vocazione Maggioritaria di qualche tempo fa e il ripiegamento sul valore educativo dello stare all’opposizione). Però bisognerebbe anche chiedersi se davvero nuove elezioni non sarebbero state la scelta giusta o, per lo meno, la meno sbagliata, anche prima e, soprattutto, se il PD quando, in un modo o nell’altro, ha comunque governato il Paese, lo ha fatto bene o no. Le cattive compagnie di governo, le strane alleanze, non sono mai una giustificazione agli occhi dell’elettore per scelte senza grande e immediata sintonia con le maggiori richieste del Paese. Aggiungerei anche che la voglia di opposizione del PD andrebbe più spesso verificata con la sensibilità concreta della gente e modulata di conseguenza. Forse possiamo spiegarci meglio con un esempio. Prendiamo il provvedimento sui raduni illegali. Troppi esponenti del PD hanno sfoderato le solite armi del fascismo e dintorni. Certo, questo governo è di destra con venature nere crescentemente ben visibili oltre i nascondimenti. Ma gran parte degli italiani, probabilmente, ritiene giusto impedire i Rave Party che frequentemente costituiscono una sorta di porto franco per comportamenti non sempre irreprensibili. Ad una misura del genere bisogna opporsi con tutti i mezzi disponibili per l’opposizione, ma non con un comportamento che finisca, come è avvenuto, di trasformare il partito in un sostenitore dei Rave Party. In altre parole: l’opposizione è forse una buona medicina, ma è meglio seguire le istruzioni dell’allegato bugiardino! Non posso fare a meno di chiedermi, poi, analizzando brevemente alcune esternazioni più recenti dei vertici del PD, se non si ragioni troppo per frasi fatte o concetti un po’ banali e astratti. Prendiamo uno dei vari interventi del segretario (Corriere della Sera del 10 novembre 2022). Cito alla lettera: “Il PD è un partito. Un partito che non è proprietà di nessuno se nono dei suoi iscritti, militanti, elettori” e, ancora: “Quali partiti hanno fatto di recente o fanno ancora congressi veri con leadership contese da più candidati?” e, infine: “Noi abbiamo una vera democrazia interna, gli altri no”. Tutto vero, forse. Però sarebbe cosa buona e giusta domandarsi se cambiare dieci segretari in quindici anni (dal Veltroni della vocazione maggioritaria al Letta dello stare all’opposizione ci farà bene) sia davvero una prova di democrazia e se non suggerisca nessuna autocritica il fatto che i due segretari di maggior durata, che hanno occupato per 2731 giorni su 6850 (il quaranta percento) la carica di vertice, si siano entrambi scissi dal partito (Articolo1 e Italia Viva). Quali vere leadership il partito ha creato con questo forsennato Turnover di segretari? Sicuri che tutto ciò non metta in luce, piuttosto che spazi di democrazia, praterie d’ingestibilità in un partito arlecchino, con troppe prime donne, in genere primi uomini, he scalpitano per farsi aventi, per creare le loro cordate, se non le loro correnti, per arrivare alla poltrona di segretario o vicini a essa. Il Pd vuole davvero scomparire per un eccesso di democrazia formale che nasconde in realtà la mancanza sostanziale di leader riconoscibili e riconosciuti? Il Congresso dovrebbe riflettere anche su questo tema, che in qualche modo s’interroga sul funzionamento dell’organizzazione–partito e su come si crea e si seleziona una classe davvero dirigente.

 

Adesso entro un po’ più nel merito della ragione prima di questo Congresso: la fondazione di un Partito Nuovo che rappresenti, se può e deve ancora esistere, una sinistra moderna e attrattiva, in grado di offrire al Paese una visione del suo futuro fondata su programmi concreti e declinata nei suoi obiettivi fondamentali a breve, medio e lungo termine, diciamo le pietre miliari della sua strategia. Prendendola un po’ alla larga, dovremmo innanzi tutto riflettere su che sinistra vogliamo: Utopica e Cooperativa (da Saint-Simon a Owen)? Rivoluzionaria e Anticapitalistica (da Marx a Engels a Trotskij)? Riformista e Progressista (da Tony Blair a Gerard Schroder, dal Socialismo di Mercato alla Socialdemocrazia)? Magari, queste differenti anime della sinistra sono in vario modo rappresentate nel PD, che nasce da una fusione a freddo, dobbiamo alla fine riconoscerlo, dei due maggiori partiti del Novecento italiano, i cui orizzonti ideali andrebbero forse recuperati in una prospettiva di Ricostruzione 5.0 del nostro Paese. Diventa importante, a questo punto, definire allora una Missione del Partito Nuovo che dovrebbe in qualche modo prender forma da questo Congresso. Approfitto di questa considerazione per aprire un’altra breve riflessione. Sarebbe bello che noi tutti fossimo convinti che quello che definisce il genoma di un partito non sono le alleanze che decide, bensì la sequenza dei suoi valori fondanti, della sua visione della società, dei suoi programmi e delle sue azioni. È vero, poi ci sono le trappole elettorali, tipo il nostro ROSATELLUM (ma Ettore Rosato, non era del PD? Ma quella legge, il Pd, non l’ha votata? E cosa ha fatto poi per cambiarla?). Davvero sarebbe comunque una beffa finale spaccare questo congresso sulla scelta delle alleanze, con il forse inevitabile codazzo di altre scissioni di quel poco che resta. La vocazione della sinistra italiana (e non solo di queste, per la verità) a farsi del male da sole è notoria e ha costellato troppi suoi congressi, che hanno finito per essere spesso più motivo di rissa politica che collante di vera unità. È sicuramente importante ciò decide il Congresso, ma non è meno importante il comportamento di quanti usciranno da qui dopo aver detto la loro e votato, siano essi maggioranza o minoranza. Tutti devono remare nella stessa direzione, perché la democrazia di un partito si rispetta prima di tutto e soprattutto con l’accettazione di una sconfitta delle idee proprie e il contributo che comunque si fornirà al successo delle idee altrui: una prova forse troppo difficile per molti, magari per troppi, in questo partito.

 

Torno alla Missione del Partito Nuovo che dovremmo costruire. Per me, andrebbe benissimo l’assoluta brevità e semplicità di qualcosa che dicesse “Dare concreta attuazione all’articolo tre della Costituzione della Repubblica Italiana”. Lo conosciamo tutti e sappiamo bene quanto di visionario, di desiderabile e purtroppo d’incompiuto ci sia in questo dettato dei padri costituenti. Ovviamente, dovremmo collocare l’individuazione della Missione nel quadro interno e internazionale di oggi, nel composito e mutevole assetto della società contemporanea, nello spazio dei vincoli e delle opportunità gestibili con le risorse realisticamente disponibili, nella prospettiva dei tempi non brevi di un vero e proprio percorso di ricostruzione del Paese. Penso che non sarà la scelta di un segretario o di un’alleanza a permetterci di cominciare la nostra lunga marcia con qualche speranza di successo, bensì l’impegno generoso e concorde di tutti coloro potranno riconoscersi, dentro o fuori di qui, nel partito nuovo che dovrebbe disegnarsi in questo congresso. Per me, il PARTITO 5.0 cui si dovrebbe dar vita e vigore dovrebbe avere l’obiettivo di creare uno sviluppo armonico della nostra comunità, creare le condizioni per far crescere l’economia, ridurre le diseguaglianze di ogni genere, garantire tutti i diritti fondamentali delle persone, prioritariamente la salute, l’educazione, il lavoro, avere cura dell’ambiente in ogni sua forma, il paesaggio, la storia, i luoghi, le culture, contribuire al miglioramento delle relazioni internazionali mantenendo la sua collocazione atlantica e europea, rafforzare l’Unione Europea nel conseguimento dei suoi  valori e obiettivi fondanti con meccanismi di governo e di funzionamento  più efficaci, rapidi e flessibili di quelli attuali. Non so se tutto questo sia un sogno e se sto scimmiottando Martin Luter King, ma forse abbiamo bisogno proprio di qualcosa di simile a un sogno per uscire dall’incubo della scomparsa definitiva della sinistra di governo in Italia. Dico così: progettiamo un partito di sinistra che sia riformista nei mezzi e rivoluzionaria nei fini. Che vuole dire? Innanzi tutto, prendere atto di come e dove stiamo: in Occidente, in Europa, in un’economia di mercato, in una democrazia rappresentativa e parlamentare, in una società di corpi Intermedi portatori di interessi particolari, in un Paese di diffuse differenze socioeconomiche tra le classi e squilibri tra i territori. Tutte queste coordinate di sistema vanno gestite, non certo scardinare, come piacerebbe forse a qualcuno. Gestirle, in estrema sintesi, significa individuare le priorità, ossia l’ordine logico e consequenziale delle azioni da compiere Esse saranno inevitabilmente sempre un po’ conflittuali, perché non si può pensare di risolvere senza conflitti e in breve tempo la montagna di distonie del nostro grande e stanco corpo sociale, economico e territoriale. Per questo, parliamo di riformismo dei mezzi. Semplicemente perché vorrei evitare il mito della rivoluzione come scorciatoia del cambiamento per questa Italia, come essa è, in questo mondo, come esso è. Per questa ragione, credo che il congresso debba riflettere seriamente sul senso vero e profondo della scelta politica da fare, che non è quella d’indicare un segretario o individuare un’alleanza, ma qualcosa di molto diverso. Perdonatemi, a questo punto, la digressione su un aspetto particolare, che mi sembra pertinente, senza nessun intento didascalico. Nella lingua inglese esistono tre termini diversi che indicano la politica: Polity, che grosso modo indica il sistema politico istituzionale, vale a dire come funziona la politica; Politics, che approssimativamente indica la struttura della competizione politica, cioè la gara per il potere di governo; Policy, che sinteticamente indica cosa fare e per quali obiettivi, la soluzione politica dei problemi. Io penso che, in questo momento, sia assolutamente prioritario discutere della Policy, perché, alla fine, è ciò che contiene la dimensione materiale della politica, gli obiettivi da perseguire e le soluzioni da dare ai problemi concreti del Paese: i soli risultati davvero visibili delle azioni politiche di un partito che ha a cuore gli interessi della collettività. In Italia la politica affronta  oggi malvolentieri i problemi sociali ed economici collettivi preferendo quelli etici legati ai valori individuali. Succede in tutto il mondo, ma in Italia questa tendenza sembra essersi accentuata negli ultimi anni. Così si finisce per eludere la centralità dei temi sociali ed economici (strettamente correlati fra loro) a favore del dibattito su questioni come l’inclusione sociale o l’estensione dei diritti, che sono temi certo primari per la politica, ma spesso sembrano stridere troppo con l’evidenza della mancanza di case, di lavoro, di reddito che affligge milioni di famiglie italiane. Come fosse una fuga in avanti per evitare di confrontarsi con l’asprezza e la difficoltà oggettive di affrontare quelle radicali riforme sociali ed economiche che servono al futuro del Paese, ma che dovrebbero inevitabilmente toccare gli interessi di molti strati elettorali dell’estesa piramide socio – economica italiana, ben intenzionati a tenersi stretti i loro privilegi, le loro rendite di posizione e, in definitiva, le tante regalie arrivate loro da anni e anni di politiche istituzionali elargitrici. Dovremmo anche riflettere sul fatto che le democrazie occidentali, alle quali l’Italia appartiene a pieno diritto e vogliamo comunque continuare ad appartenere, hanno negli ultimi trent’anni progressivamente creato un modello di società e di sistemi economici che merita una qualche riflessione critica. Questo modello è stato costruito su almeno quattro pilastri fondamentali: il primato dell’individuo (che non è il primato della persona); il primato del mercato (che non è il primato della concorrenza); il primato della finanza (che non è il mercato dell’economia); il primato della globalizzazione (che non è il primato del libero scambio). Queste tendenze hanno sancito la fine di potere utilizzare le forme tradizionali delle grandi lotte sociali della sinistra rivoluzionaria, prima, e riformista, dopo. A questo punto, dobbiamo riprendere se non le forme, almeno lo spirito di quelle lotte che cercavano, magari anche confusamente, di conciliare i valori e i diritti delle persone e delle classi sociali con la soluzione dei problemi dei problemi del vivere quotidiano di tutti e soprattutto dei più deboli, in particolare. Insomma, ritorniamo ad occuparci dei valori e dei diritti, ma anche del lavoro, dei salari, delle pensioni, della sicurezza, dell’immigrazione da intendersi come questioni sociali di tutti.

 

Vorrei adesso soltanto aggiungere alcune considerazioni sulla materia più vicina alla mia esperienza di studio e professionale, che è l’economia. Possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che senza una crescita economica robusta non potremo mai creare uno sviluppo armonico, che coniughi partecipazione, inclusione, equità. In realtà, più in generale, una società italiana migliore non potrà nascere senza una ricostruzione economica del Paese, fermo al palo da quasi un quarto di secolo. Questo dovrebbe essere molto chiaro a tutte le parti sociali: all’imprenditoria finanziaria e industriale di ogni tipo, alle organizzazioni sindacali di qualunque colore, ai politici di tutte le appartenenze, alla magistratura, alla burocrazia, a ogni segmento di questa macchina-paese che si è fermata e sembra guardare soltanto il proprio ombelico e curare soltanto i suoi interessi particolari. E dovrebbe essere soprattutto chiaro a noi, che siamo qui in questo congresso. C’è bisogno di un grande senso della concertazione, a tutti i livelli. Però bisogna capire di che tipo di concertazione stiamo parlando. È ovvio che tutti i corpi intermedi della società, in particolare le associazioni padronali e sindacali, rappresentative o meno, politicamente orientate a sinistra o a destra, non importa, non rinunceranno mai a mettere sul tavolo della concertazione gli interessi particolari che rappresentano. Qualche volta, tuttavia, dovrebbero magari pensare un po’ di più alla grande maggioranza del Paese, che non è iscritta a qualcosa, che non ha nessuna tessera in tasca, che non appartiene a nessuna corporazione, che, alla fine, non è rappresentata da nessuno, neanche dal governo, che pure dovrebbe farlo per il Bene Comune, questo grande sconosciuto della politica italiana. A cosa è ridotta, in Italia, la concertazione? Purtroppo, a qualcosa di molto simile alla spartizione del poco che c’è fra i poteri organizzati che sono grandi, ma anche piccoli e piccolissimi, alle volte e i gruppi di pressione, palesi o occulti, che ruotano attorno e spesso dentro la politica. Di tutto questo, il Paese dovrebbe disfarsi, senza velleitarismi abborracciati e protagonismi beceri, ma con l’impegno personale serio di tutti i giorni di una classe dirigente rinnovata e, forse, anche meno rassegnata. Io penso che una sinistra ritrovata, diciamo così, potrebbe, anzi dovrebbe, contribuire in questa direzione, che vuol dire tagliare alla radice la malapianta dei tanti comportamenti consociativi e collusivi diffusi in ogni tassello della società. italiana. A questo punto, voglio anche dire qualcosa sulla così detta questione morale, anche sulla scia di recenti avvenimenti che hanno, in un modo o nell’altro, interessato il PD. Cercherò di farlo evitando la sguaiatezza di certe letture dei fatti e il dilettantismo etico di troppi, ma anche senza eccessivi svolazzi intellettuali. In linea di principio, il tema dell’etica politica, spesso indicata anche con altre dizioni, come morale politica o etica pubblica, consiste nell’esprimere un giudizio morale sulle azioni politiche, che è cosa sostanzialmente diversa dall’esprimere un giudizio morale sulle azioni personali. Inoltre, ci sono almeno due differenti aspetti dell’etica politica. Il primo aspetto è quello dell’etica politica nei processi, che riguarda l’etica, diciamo così, dei pubblici servitori, i politici nell’esercizio della loro funzione rappresentativa e i burocrati nell’esercizio della loro funzione amministrativa. Il secondo aspetto è quello dell’etica politica nelle azioni, dei partiti e dei parlamenti, ad esempio, cioè in quella che ho prima chiamato la Policy. Anche se etica dei processi ed etica delle azioni discendono entrambe dai concetti di base della filosofia morale e della filosofia politica, sono argomenti molto diversi, che meritano analisi, valutazioni e giudizi differenti. In effetti, tutti noi, e i mezzi di comunicazione in particolare, ci occupiamo comunemente dell’etica politica dei processi, che implica sostanzialmente un giudizio morale sulle persone, confondendola con l’etica politica delle azioni, che implica sostanzialmente un giudizio morale sui partiti. Non crediamo si tratti di un errore metodologico involontario, ma piuttosto del desiderio di trasformare tutto in rissa politica. La domanda che in realtà mi pongo è questa: diffusi e ricorrenti episodi di mala etica personale di uomini di partito e di burocrati di area, chiamano in causa i partiti politici? In che misura? Io rispondo sì e in misura importante. Essi rappresentano la prova provata di meccanismi di selezione della classe dirigente quantomeno inadeguati, per non pensare di peggio, e di meccanismi di cordata interni ai partiti in base ai quali si chiude un occhio, e anche due, su evidenze comportamentali spesso molto visibili, in cambio di prove di appartenenza, che Ä— solo un altro modo di chiamare il voto di scambio. Su questi argomenti, mi sembra di aver visto troppe latitanze nelle prese di posizione del PD, troppo garantismo peloso, troppi equilibrismi metaforici (le mele marce, gli scagli la prima pietra, la responsabilità personale e via così). Dovremmo invece guardarci bene nello specchio e avere la forza di vederci come siamo, anche se non è facile, e poi lavorare seriamente per essere migliori domani, senza tuttavia illudersi di poter mettere mani sul fuoco per chiunque dei nostri. L’etica s’impara? Forse, ma se ce l’hai di tuo è decisamente meglio.

 

Spendo ora qualche parola e qualche dato di più per esaminare alcuni aspetti della nostra situazione economica che fotografano bene anche le diverse lacerazioni sociali del Paese. L’argomento è molto vasto e non affrontabile in questa sede. Posso soltanto mettere in luce due aspetti che ritengo siano priorità assoluta e che riguardano: la povertà crescente e sempre più diffusa, da una parte e il lavoro sempre meno accessibile e sempre meno retribuito, dall’altra.  Questi due aspetti, in effetti, sottendono una complessa rete di questioni che abbracciano il fisco, la formazione professionale, la competitività delle imprese, gli stimoli all’innovazione e allo sviluppo, la qualità delle relazioni tra le parti sociali e numerosi altri. L’economia è un sistema complesso dove tutto si tiene e ogni anello debole propaga onde di crisi in varie direzioni. Dovrei spendere un po’ di dati, ma per evitare la noia di chi mi ascolta, cercherò di limitarmi, segnalando che essi derivano da due database: quello dell’OCDE e quello di EUROSTAT, entrambi facilmente accessibili a chi si diletti in Facts Check. In questo momento l’Italia è un Paese con un elevato livello di rischio di povertà degli individui e delle famiglie. Il nostro rischio di povertà (At Risk of Poverty Rate), calcolato dopo i trasferimenti sociali è pari al 20%, maggiore di tre punti percentuali rispetto a quello osservabile nella media UE (17%). I due paesi che, per la dimensione della loro economia, sono più significativamente confrontabili con noi mostrano valori minori: 16% la Germania, 14% la Francia. Se disponessimo di tempo e voglia di scendere nel livello territoriale delle statistiche, ci accorgeremo facilmente delle Due Italie, ad esempio con il 38% circa della popolazione a rischio di povertà in Sardegna e Campania rispetto al 12% della Lombardia. Ma questo ci porterebbe troppo oltre. Tutto questo, fra l’altro, in una situazione di concentrazione del reddito che vede l’Italia (con un indice – quartile al 20% pari a 5,86) ben oltre la media dell’UE (4,97) e con un grado di concentrazione maggiore di osservabile in Germania (4,88) e in Francia (4,42). Forse un pensierino nella direzione di un maggior equilibrio nella distribuzione del reddito andrebbe fatto. Però preoccupa ancora di più, forse, l’altro dato, relativo al rischio di povertà di coloro che hanno un lavoro: da noi questa percentuale, meno del 9% nella media UE, sfiora il 12%. I fattori che influenzano in maggior misura il crescente livello di disagio economico di molte famiglie italiane sono probabilmente due: la scarsità di lavoro e il livello dei salari.  Vediamo il primo aspetto. In Italia il tasso di attività della popolazione economicamente attiva, fra i 15 e i 64 anni, è un po’ meno del 65%, rispetto al 74% della media UE e della Francia e al 79% della Germania. Dico subito una cosa: non è che gli italiani abbiano poca voglia di lavorare. Le ragioni principali di questo differenziale sono probabilmente tre. Primo, la scarsità di offerta di lavoro, che scoraggia molte persone a cercarlo, la rigidità del mercato del lavoro, che rende difficilmente usufruibili alcune forme di lavoro anche se la percentuale di lavoratori a tempo determinato e a tempo parziale non differisce molto da quella osservabile in Germania e Francia. Secondo, l’insufficiente dotazione di sostegni al lavoro femminile e non a caso il tasso di attività della popolazione femminile in Italia scende al 55%, venti punti sotto la media UE. Del resto, se contiamo sul dato più basso di popolazione attiva nell’UE, circostanza che dovrebbe contenere il nostro tasso di disoccupazione, siamo primatisti invece anche in questo: 10% circa, verso l’8% circa di media UE e Francia, senza parlare della Germania, abbondantemente sotto il 4%. Un solido primato deteniamo anche nel livello di disoccupati a lungo termine (oltre un anno). La percentuale dei disoccupati che in Italia si trova in questa situazione è oltre il 60% del totale, contro meno del 50% in UE, il 35% in Germania e solo il 30% in Francia. Ma ci sono poi altri dati piuttosto preoccupanti, come quelli che riguardano la fascia più giovane delle forze di lavoro (fra 15 e 24 anni), dove siamo vicini al 30% (uno su tre) rispetto al 17% circa della media UE (come la Francia) e all’inarrivabile 7% circa della Germania. Terzo, volendo aggiungere un piccolo tassello a questo quadro desolante, bisogna aggiungere che deteniamo anche il record dei giovani fra i 15 e 29 anni che non è occupata, né inserita in un percorso di istruzione o di formazione (Not in Education, Employment or Training, NEET) che sono il 23% circa, ben dieci punti sopra la media UE e francese e quattordici sopra la media tedesca. Chi ama la sintesi, potrebbe dire: gli italiani che hanno o che cercano un lavoro sono pochi, tanti di quelli che un lavoro lo cercano non lo trovano e se lo perdono fanno una gran fatica a ritrovarlo, le donne e i giovani sono i più emarginati dal mercato del lavoro. Senza piangerci addosso, tutti noi italiani adulti abbiamo abbondantemente contribuito a questo disastro, dovremmo riconoscere che non è con i pannicelli caldi, non è domani, non è senza toccare diffusi interessi corporativi, non è senza sacrifici dei Clusters sociali più protetti e abbienti che possiamo sperare di ridare speranza al Paese. Per questo, abbiamo parlato più volte di una vera e propria ricostruzione della nostra economia come preludio alla ricostruzione della nostra società. Non neghiamoci qualche iperbole: in uno scenario per fortuna molto diverso da allora, possiamo dire, in termini solo rappresentativi, che siamo in una condizione se non simile almeno vagamente somigliante a quella del primo dopo Seconda Guerra Mondiale, senza le distruzioni e gli strazi di allora, ma con tante cose da ricostruire, come allora, per non perdere il treno del futuro. Il secondo decennio del XXI secolo non è stato di certo un periodo di espansione economica per l’intera UE. Dal 2010 al 2021 tutti i Paesi hanno sofferto, con indici molto modesti di crescita. In questo scenario, l’Italia è andata peggio di molti, restando praticamente al palo, anzi cedendo un limitato, per fortuna, -0,02% l’anno di decrescita del PIL. La media UE è una smunta crescita dello 0,64% l’anno. Un po’ meglio hanno fatto Francia (+1,05%) e Germania (+1,52%). Sembrano differenze risibili, forse pignolerie da economisti: ma, alla fine, vogliono dire che il nostro PIL del 2021 a prezzi costanti è minore di quello del 2009, mentre quello della Germania, per confrontarci con chi ha corso di più, è maggiore del 20%. In altre parole: i differenziali del nostro sviluppo economico rispetto a quello dei due altri maggiori Paesi manifatturieri della UE rischiano di accelerare e questa non è una buona notizia né per chi il lavoro dovrebbe crearlo, le imprese; né per chi il lavoro dovrebbe difenderlo, i sindacati; né per chi dovrebbe assicurare le condizioni di sistema per rendere competitivo il Paese, il governo. Diciamoci la verità, in questa sede e in questo momento. Il disco: “Siamo un grande Paese, ce la faremo” si è rotto. Non suona la musica giusta per il nostro debito pubblico monstre, per l’arretratezza delle nostre infrastrutture, dei nostri sistemi logistici, delle nostre reti di comunicazione, per la farraginosa complessità della nostra legislazione, per l’esasperante lentezza e indeterminatezza della giustizia, per la condiscendenza etica verso gli evasori fiscali grandi, piccoli e piccolissimi, per la pervasività e impunità di troppe organizzazioni criminali. E poi, alla fine, siamo anche un Paese che addolcisce un po’ tutto: l’evasione fiscale, vestita da colomba, si trasforma in pace fiscale; l’abusivismo edilizio di massa diventa di necessità; l’uso del contante un segno di libertà’ e un aiuto ai nostri incapaci anziani; eccetera.

 

Conviene parlare dei salari italiani, alla fine. Sappiamo di toccare uno degli argomenti forse più controversi del confuso dibattito politico italiano. Cercheremo di essere semplici e per questo ci serviremo degli ultimi dati OCDE (derivati dal Tax Wedge Decomposition dell’Ánno Fiscale 2021), che forniscono molti elementi di valutazione su questo tema. Come di solito mi confronterò con la Francia e la Germania, convinti che sia più stimolante guardare avanti che non indietro. Comincio dal costo del lavoro, calcolato per una persona singola, senza figli, occupata a tempo pieno, nella media dell’economia. I dati del costo annuo del lavoro sono questi: Germania €64.945, Francia €544.79, Italia €44.779. Dunque, il nostro costo del lavoro è del 31% inferiore a quello tedesco e del 18% inferiore a quello francese. In teoria, uno direbbe che è una buona notizia per il datore di lavoro, ma una cattiva notizia per il lavoratore. Il vantaggio competitivo è evidente, se il costo del lavoro fosse davvero il discrimine della competitività, oggi come nel lontano passato. Ma non è così, e probabilmente se ne sono accorti anche gli imprenditori italiani, girando per il mondo e osservando come si sta muovendo la Global Value Chain e come lo sviluppo dell’impresa, e con questa, di tutto un paese sia trainato soprattutto dalla salita lungo quella catena, piuttosto che dal semplice costo del lavoro. Temo di andare fuori pista, però. Torno al costo del lavoro. Importante che non ci rifugiamo in confronti impropri sul costo del lavoro con paesi che lo hanno certamente molto minore. Noi, in fondo, siamo ancora nel G7, siamo ancora l’ottava economia al mondo per dimensione assoluta di PIL, siamo ancora dodicesimi nel Ranking Mondiale dei maggiori paesi esportatori, eccetera. Siamo un’economia ancora grande, ancorché forse non ancora una grande economia. Anche in occasione della recente legge di bilancio, si è tornati a discutere sul grande imputato del nostro costo del lavoro, che sarebbe il Cuneo Fiscale, il Tax Wedge, nelle statistiche internazionali. Diamo un’occhiata se questo corrisponde al vero. Il valore medio 2021 del cuneo fiscale sui salari, calcolato come percentuale sul costo totale del lavoro di imposte sulla persona, più contributi sociali a carico del dipendente, più contributi sociali a carico del datore di lavoro, è stato pari al 48% in Germania, al 47% in Francia e al 46,5% in Italia. Nessun divario importante che possa far gridare allo scandalo. È fuor di dubbio che in Italia ci sia un problema di salari, ma rimandarlo all’effetto cuneo fiscale è un evidente errore di prospettiva. Abbiamo sbagliato bersaglio e molti indizi lo confermano. Lo dimostra bene il fatto che il cuneo fiscale è, in Germania, Francia e Italia stabilizzato da almeno vent’anni, con limitate variazioni dimensionali. Fra i tre paesi, la differenza forse maggiore è su come si distribuisce l’onere del cuneo fiscale. La quota a carico del dipendente è del 65% in Germania, del 48% in Italia e del 43% in Francia. In Italia, esiste certamente un problema di livello salariale, ma non è arrampicandosi sullo specchio del cuneo fiscale che si possa risolvere. Anche perché dobbiamo avere chiaro che stiamo parlando, da una parte, d’imposte sulle persone fisiche, cioè entrate dello Stato e, dall’altro, di retribuzione differita in forma di pensione, che dovrà pagare l’INPS e incrociamo le dita che ci riesca a lungo. E poi, lasciatemelo dire, c’è l’evidente testimonianza della recente legge di Bilancio, con poche decine di euro da riduzione del cuneo sventolate come l’inizio di non si sa bene che cosa. Il cuneo fiscale è in sostanza una variabile piuttosto rigida di sistema e la questione dei salari andrebbe forse presa dall’altro lato del filo. Quello che forse si potrebbe fare è creare una specie di soglia in valore assoluto del cuneo fiscale applicabile ai salari entro un certo tetto. Non posso entrare nel dettaglio dei calcoli. Spiego solo la sintesi. Sono partito da questa ipotesi: rendere il potere d’acquisto del salario medio italiano eguale a quello del salario medio francese, tenendo conto del differente livello medio del reddito pro-capite a parità di potere d’acquisto. Inoltre, ho supposto di tenere fermo l’ammontare assoluto del cuneo fiscale italiano (circa €20.800). Alla fine, il costo del lavoro per il datore salirebbe di meno del 4%, il salario netto in busta paga salirebbe di circa il 9% e il cuneo fiscale scenderebbe di circa due punti e mezzo percentuali assestandosi al 44%. Ovviamente, lo Stato e l’INPS non lucrerebbero la rispettiva quota del costo incrementale del lavoro e gli imprenditori dovrebbero mettere un po’ mano al portafoglio. Nessuna pretesa, in questo esercizio numerico, fatto su un valore medio che in realtà copre tutta la gamma di salari vigenti sul mercato da quelli molto bassi a quelli molto alti, da quelli che vanno rivalutati a quelli che vanno comunque bene anche così. Volevo soltanto dire che, forse, se si discute con pacatezza, serietà e buon senso, si può arrivare a mediare su obiettivi, alla fine, di comune interesse. Al governo interessa certamente il miglioramento del tenore di vita dei cittadini, agli imprenditori interessa certamente la collaborazione convinta dei dipendenti, ai sindacati interessa certamente la competitività delle imprese, cioè la condizione della loro sopravvivenza e sviluppo. Allora, forse, potrebbe diventare più facile anche lavorare su altri fronti del mercato del lavoro: il salario minimo, che va fatto ma poi va fatto soprattutto rigidamente rispettare, con controlli diffusi e con sanzioni molto pesanti per gli inadempienti; il reddito sostegno che deve esistere, ma che dovrebbe servire soltanto a riportare alla comunità le persone emarginate, impossibilitate a lavorare, anziane, sole e via così; il sussidio di non-occupazione, dal salario di addestramento al sostegno di reddito nella ricerca del lavoro all’assegno di disoccupazione. Non è che dobbiamo inventarci tutto di nuovo: teniamo il buono che abbiamo fatto, se l’abbiamo fatto, modifichiamo quello che c’è da modificare, impariamo da chi ha fatto bene, e sono tanti i paesi in Europa che ci possono insegnare qualcosa, adattiamo esperienze consolidate altrui al nostro Paese.

 

Consentitemi due flash su due questioni che agitano molto, in differente modo, la politica: reddito di cittadinanza e Flat Tax, le due trincee Acchiappa - Voti del Movimento 5 Stelle e della Lega. Relativamente al reddito di cittadinanza, certamente ha contribuito ad alleviare le condizioni di disagio economico di molte persone. Niente ha prodotto in termini di loro avvicinamento al lavoro che non avevano. L’unica motivazione sorprendente a sostegno del reddito di cittadinanza Duro&Puro l’ha trovata il Neo-Barricadiero Giuseppe Conte, con la scoperta che il tasso di abuso truffaldino dello strumento, dati INPS, riguarda solo percentuali molto modeste di percettori. Esattamente come dire che l’evasione fiscale italiana equivale alle somme recuperate annualmente dall’Agenzia delle Entrate. Qualcuno dica a questo signore che sta sbagliando o sta mentendo. Magari qualcuno di questo stesso congresso che accarezza l’idea di allearsi con il più sbracatamente populista movimento politico italiano, privo di ogni referenza culturale e ideale, ancorché non condivisibile. Veniamo alla Flat Tax del Neo–Libertario Matteo Salvini e al suo riuscito tentativo di introdurla in modo surrettizio, parziale, sgangherato, ma evidente, nel sistema tributario italiano. Inutile ricordargli che la tassa piatta viola la Costituzione. Tuttavia, la Flat Tax non esiste in nessuna economia importante e in nessun paese che abbia un sistema di welfare non indegno. In Europa, la applicano sette paesi, piccoli, con un livello di reddito per abitante molto limitato e una spesa sociale altrettanto limitata. Si potrebbe parlare di paesi privi, o quasi, di welfare. Negli ultimi dieci anni ben dieci paesi europei hanno abbandonato la tassa piatta per seri problemi di finanza pubblica. Tutti gli studi in materia dimostrano chiaramente che l’effetto sull’evasione fiscale e sullo sviluppo economico è trascurabile, se non negativo, come sempre capita per il livello di spesa sociale. Purtroppo, le bandierine della sacralità del reddito di cittadinanza e del miraggio della Flat Tax, usate in modo e misura spregiudicati, ottengono facili consensi in parti importanti dell’elettorato. La politica Acchiappa - Voti, insomma. A questo proposito, vorrei rimarcare un aspetto importante che spesso dimentichiamo, o facciamo finta di dimenticare. Qualunque meccanismo di sostegno economico alle persone e alle famiglie, in ogni forma possibile e auspicabile, è equo soltanto se ha alle spalle un sistema di riconoscimento dei beneficiari efficiente, che vuol dire un sistema fiscale a maglie strette in quanto a evasione, elusione e anche sparizione, gli sconosciuti al fisco. In caso contrario, si rischia di sostenere, oltre ai meritevoli di tutela, anche i furbi e furbetti purtroppo ben presenti nel nostro Paese. Col rischio, fra l’altro, di mettere fuori gioco anche strumenti che potrebbero essere opportuni e validi. Per esempio: l’idea dei Bonus può anche essere in alcune circostanze percorsa, ma non quando si diffonde a pioggia, non è in nessun modo selettivo e, infine, arriva al demenziale centodieci per cento (approvato dal governo Conte II, dove ci sembra avessimo le mani in pasta anche il PD). La stessa idea del reddito di cittadinanza può aver senso, ma non per abolire la povertà, com’ebbe a dire qualcuno ora abbastanza vicino al PD, o per permettere un maggior incontro fra domanda e offerta di lavoro attraverso la mediazione di spesso improvvisati Tutor, incolpevoli di nulla se non di cercare un lavoro che non c’è e forse di qualche impreparazione professionale di troppo.

 

Sono davvero arrivato alla fine e mi scuso per la lunghezza. Forse qualcuno mi accuserà di non aver parlato di diritti, di immigrazione, di mafia, di giustizia, di sanità, di scuola, d’ambiente e vari altri temi rilevanti. Il mio limite è che riesco a parlare solo delle cose che conosco meglio, che non vuol dire necessariamente bene. So che la politica ha uno spazio di azione vastissimo, ma non mi dispiacerebbe che anche chi si occupa di politica parlasse soprattutto delle cose che conosce e si rendesse conto che, forse, amministrare un ente locale, guidare un partito, governare un paese non sono esattamente la stessa cosa e richiedono leaderships differenti anche se naturalmente non incompatibili fra loro. Essere o sembrare nuovi, poi, non è garanzia di successo, perché problemi molto complessi escludono soluzioni troppo semplici e il nuovismo è qualche volta un’innovazione anagrafica che non funziona.

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